Caro amico nodoso…un racconto di Lidia Masci
Nelle sperdute campagne del profondo Capo di Leuca, immerso in un suggestivo “paesaggio di pietra”, un secolare ulivo sorveglia come una silente sentinella un antico sentiero, un tempo solcato dai pastori e dai contadini che dal paese di Morciano si recavano ai fertili campi che si estendevano vicino al mare. Il nome della strada, “Irsuli” riemerge da vecchie mappe ottocentesche e la sua origine è ignota.
Le chiome dell’ulivo, sopravvissute al disastro della malattia che ha colpito gran parte dei suoi simili, ammirano tramonti sul mare e osservano – in nitide giornate di tramontana – i rilievi montuosi della Basilicata e della Calabria, che preannunciano il maltempo tre giorni dopo la loro comparsa.
A questo albero dal tronco rugoso e segnato dal tempo Lidia Masci, scrittrice bresciana innamorata di questo lembo di Salento, ha dedicato un racconto che vi invitiamo a leggere e, soprattutto, a cogliere il messaggio che Lidia ha voluto trasmettere in un appassionante dialogo immaginario tra lei e il suo “caro amico nodoso”.
Caro amico nodoso, ti ho lasciato a sorvegliare il ciolo con profondo dolore e tu, sentinella silenziosa che nascondi l’annosità contorta della vita fra le rughe profonde del tuo essere, mi hai salutato, ondeggiando le tue piccole foglie placide alla lieve brezza marina. “Non andare, mi hai detto rincorrendomi con la tua voce baritonale, ti devo, ancora, raccontare come sono approdato sulla terra degli uomini, dopo aver lasciato il mio verde pianeta popolato solo di piante generate da un’unica radice!” La curiosità mi impedì di proseguire, così ritornai sui miei passi e mi accoccolai fra le sue radici proprio nel punto in cui avevano annodato le pietre creando una comoda poltrona naturale.
“Un’unica radice, chiesi, ma com’è possibile?” “Un’unica radice abbraccia tutto il pianeta, vive nelle profondità della terra e ritorna in superficie solo quando è stanca della oscurità che l’avvolge; qui, si insinua negli anfratti più reconditi, si allunga, si attorciglia, si fascicola, si piega ad angolo retto, acuto, piatto. Poi si inabissa di nuovo nelle profondità oscure per succhiare ai pozzi naturali e alle falde traboccanti d’acqua, la vita.
Quando le mani roventi del sole l’accarezzano lei spinta dal desiderio si lascia sedurre, asseconda la danza di quelle mani voluttuose e alla fine apre il suo ventre e germoglia.”
“Ma la diversità, da dove deriva?” gli chiesi e intanto mi immaginavo quell’enorme pianeta tutto terra, senza mare, con un nucleo acquoso e vestito di un velluto verde a scacchi tra le cui cuciture lasciava intravedere atolli allungati di terra marrone.
“La diversità, disse, è provocata dalla dinamica delle sue forze interiori. Quando è satura di sole, d’acqua e d’amore, fa esplodere i suoi mille canali e nuovi piccoli virgulti nascono cullati da piccole gocce d’acqua premurose che, pian piano, a contatto con la terra e toccate dal calore del sole, esprimono con un languore diverso la loro morte imminente e così dall’amore prima e dalla morte dopo, nascono tutte le piante: la radice è unica, ma le diversità, che dipendono anche dal numero delle gocce, non si contano. Io sono nato fra mille gocce d’acqua morenti, in un momento d’amore profondo, di passione struggente fra il sole e la Madre Radice e nascondo, nelle viscere del mio essere, infinite ampolle verdi ricolme d’oro liquido che regalo agli uomini ogni anno per ricordare al vostro mondo la mia nascita fra le stelle.”
“Come sei arrivato qui sulla terra, quando hai regalato agli uomini le prime ampolle?”, chiesi osservando la sua folta chioma scompigliata dal vento malinconico di fine estate che trascinava i suoi pensieri fino a sperderli sull’orizzonte. Il gigante sembrò chiudersi in se stesso, come se volesse trattenere i suoi segreti, ma il tocco amico della mia mano sulla sua corteccia a placche, quello con cui ogni sera lo salutavo augurandogli la buona notte, lo rilassò e così mi introdusse nella sua storia fantastica. “Vivevo felice con la mia numerosa famiglia, tutti uniti su quell’unica Madre Radice, fonte di tutta la vita.
Le giornate trascorrevano serene fra chiacchiere condite con fruscii e sussurri, ondeggiamenti di fronde al vento con il loro verde, grigio-argento che appariva e scompariva intervallato dal verde più brillante delle foglie dei nostri vicini: i lecci. Un giorno fra noi nacque una splendida pianta mai vista prima. Timidamente mi disse di chiamarsi Betulla. La sua corteccia era un tubino bianco e nero, i rami flessuosi erano braccia sottili e i capelli erano una chioma leggera di foglie a forma di piccoli cuori. Fu amore a prima vista! La corteggiai fino all’esasperazione e, alla fine, lei si innamorò di me. Gli anni, però, erano passati; io crescevo annodandomi sul fusto, lei iniziò ad avvizzire e pian piano scomparve per lasciare il posto ad altre creature del suolo in un ultimo atto d’amore. Singhiozzai la mia disperazione, mescolai lacrime a stille di rugiada tanto da creare un fiume di dolore che arrivò dritto al cuore della mia Madre Radice. Questa, preoccupata, chiese al vento di regalarmi dei fiori che si tramutarono in piccoli frutti verdi, ma il dolore non si placò perché Betulla restava sempre scolpita nel mio cuore legnoso. Le lacrime finirono, restò solo il mio travaglio interiore per un amore perduto che mi annodò sempre più con il passare degli anni. Poi arrivò la pace fra le mille betulle nate dalle mie lacrime d’amore e una quiete perenne si impossessò del mio essere perché mi riconciliai con me stesso e con quel mondo frondoso che mi circondava. I miei rami spezzavano la violenza del sole, assicuravano l’ombra ai piccoli arbusti appena nati e, con il loro fruscio, sussurravano parole incantate ai giovani virgulti che stentavano a crescere.
Un giorno Signora Armonia arrivò sul pianeta e chiese a Madre Radice un dono per dei piccoli esseri che stavano popolando un pianeta lontano: la Terra. “Vorrei una pianta che racchiuda tutto l’amore possibile fra il cielo e la terra, che sia un simbolo di pace per quegli spiriti ribelli sempre in lotta fra di loro; una pianta che trasformi se stessa in una sorgente di cibo!” “Ti darò una miniera d’oro ripiena – replicò Madre Radice e così dicendo ridusse talmente le mie dimensioni che divenni un fermaglio chiomoso fra i capelli di Signora Armonia. Col pensiero mi trasmise sulla vostra terra irrequieta e, qui, fra zolle sconosciute, crebbi solo, poi trovai nuovi amici e nuovi piccoli arbusti da proteggere sotto il mio ombrello bucato.
Crebbi sempre più nodoso e dai miei frutti iniziò a scorre una miniera d’oro liquido che ha invaso tutta la terra.” Tacque e si addormentò con i passeri fra le sue stesse fronde.
Per omaggiare Lidia e il suo “caro amico nodoso” abbiamo donato all’albero una stampa del racconto, in modo che chiunque voglia venire a trovarlo possa sussurrargli questa bellissima storia.
Biografia di Lidia Masci
Nata a Brescia, ha insegnato prima in Francia, poi nella sua città, amando profondamente il suo lavoro e i suoi studenti. Instancabile viaggiatrice, ha esplorato il mondo alla ricerca dell’essenza delle cose e della loro magica diversità. Ha pubblicato diversi libri, tra cui: Anno Bisestile (Gilgamesh edizioni, 2016), Il Cerchio (ilmiolibro edizioni, 2012).