DA “CELLINI” AD ANDRANO: FONTI STORICHE ED EVIDENZE ARCHEOLOGICHE
Marco Cavalera – Nicola Febbraro
“CELLINI”: FONTI STORICHE.
Le notizie riguardo alle origini di Andrano sono esigue e non offrono molte informazioni utili alla ricostruzione dell’antica storia del paese.
Secondo la tesi di Cepolla – riportata da Arditi – Andrano sarebbe stato edificato dai Cretesi[1]. Sulla base di questa tradizione storica si è stratificata nel tempo la leggenda di uno sbarco sulle coste andranesi, a seguito di un naufragio, di un gruppo di pescatori greci che fondarono il casale di Feronzo. Questi, in una fase storica non precisata, si sarebbero trasferiti nell’entroterra, in un luogo più sicuro, fondando il casale denominato “Cellini”, dal quale avrebbe tratto origine l’odierna Andrano[2].
La tradizione storiografica, riguardo alla cronologia dei suddetti eventi, è discorde. Secondo Arditi il casale di “Cellini” venne distrutto dai Vandali nel V sec. d.C. e sulle sue rovine sorse Andrano[3]. Il Cieco da Forlì ritiene che “Cellini” sia sorto nel 650 d.C.; altri studiosi, invece, convengono per una datazione posteriore, da riferire al tempo delle invasioni dei Saraceni nel Salento (IX-X sec.)[4].
Di questo antico casale – che sorgeva circa 600 metri ad est dall’odierno centro urbano – non è rimasto più nulla e sui suoi resti sono state edificate tre costruzioni rurali a secco (pajare), una delle quali, secondo la tradizione orale, sarebbe una “chiesetta”. Alcuni reperti archeologici, quali “lucerne, vasi ed altre imprecisate anticaglie”[5] pertinenti questo sito, sono stati raccolti dal barone Filippo Bacile e sono custoditi presso il Museo Archeologico di Taranto. Don Giacomo Pantaleo scriveva della presenza, a “Cellini”, di “sepolcri precristiani”[6] scavati nel banco roccioso affiorante.
La tradizione orale, a tal proposito, ricorda che quelle antiche sepolture si caratterizzavano per la presenza di un embrice che copriva il volto del defunto. Si tratta di un particolare rito funebre che permette di escludere la loro attribuzione cronologica all’età iapigio-messapica.
Boccadamo menziona “Cellini” tra i feudi e i casali disabitati appartenenti alla Contea di Castro. Secondo lo studioso “la sua scomparsa risale a tempi remoti, ma non si sa nulla della sua storia ed importanza. Sono state fatte molte affermazioni ed ipotesi, ma del tutto gratuite. Solo i numerosi reperti archeologici di Cellino, se accuratamente raccolti e studiati, avrebbero potuto dare utilissime indicazioni”[7].
Elaborare delle ipotesi riguardo alle più remote origini di un paese attraverso l’esclusiva analisi delle fonti storiche, senza il supporto di dati archeologici, potrebbe rivelarsi fuorviante e rendere difficile “la distinzione tra una realtà storica sommersa da secoli da: abbellimenti, esagerazioni e fantasie, spesso frutto di racconti orali”[8].
“CELLINI”: EVIDENZE ARCHEOLOGICHE.
“Degno di nota mi par il punto appellato Cellino, che resta a circa 600 metri dall’abitato (Andrano) verso levante, dov’è fama tradizionale e persistente che con quel nome esisteva l’antico paese, sostenuta e constatata dai rottami di una vecchia chiesa, dai sepolcri di forma pagana e vetusta, lucerne, vasi, ed altre anticaglie, che vi si rinvennero e più scarsamente si rinvengono ancora”[9]. Nel novembre del 2007 – prendendo spunto da quanto riferito da Arditi – è stata effettuata una ricerca di superficie che ha interessato la località “Cellini”, ubicata nel territorio del Comune di Diso a breve distanza da quello di Andrano (fig. 1)[10]. La ricognizione ha permesso di individuare un’area di frammenti fittili ampia circa un ettaro (fig. 2).
Fig. 1: stralcio dell’I.G.M. (F° 223, I NE, Tricase) con la localizzazione del sito di “Cellini”.
Fig. 2: “Cellini”. Insediamento di età romana visto da nord-est, con sullo sfondo la grande pajara.
L’area che ha restituito la massima concentrazione di frammenti ceramici è stata individuata in un fondo incolto che si caratterizza per la presenza di una costruzione trulliforme in pietra a secco, di ragguardevoli dimensioni ma in cattivo stato di conservazione a causa della vegetazione spontanea che ne ha intaccato in modo quasi irreversibile la struttura.
Il materiale ceramico rinvenuto consta di numerosissimi elementi architettonici (tegole e coppi ad impasto chiaro) e di frammenti relativi a vasellame da mensa, a contenitori da trasporto e da magazzino. Si tratta, nello specifico, di frammenti di ceramica: comune acroma, da fuoco, a pasta grigia, terra sigillata africana ed italica (fig. 3)[11], africana da cucina (fig. 4) e dipinta (a bande strette, brune e rosse, e larghe brune)[12]; sono presenti – inoltre – anfore da dispensa che presentano, talvolta, la cosiddetta decorazione a pettine (Late Roman Amphora 2, fig. 5) e grandi contenitori (dolia).
Fig. 3: frammenti di terra sigillata rinvenuti a “Cellini”.
Fig. 4: frammenti di ceramica africana da cucina dal sito di “Cellini”.
Fig. 5: frammenti di Late Roman Amphora 2, con la cosiddetta decorazione a pettine, rinvenuti a “Celllini”.
Fra gli elementi architettonici sono da annoverare anche dei blocchi calcarei squadrati riutilizzati in muri a secco che delimitano il fondo o adagiati al suolo lungo un’antica strada rurale che fiancheggia a nord-est l’area di frammenti fittili (fig. 6).
Fig. 6: antica strada rurale che fiancheggia a nord-est l’insediamento di “Cellini”.
La scarsità di resti architettonici suggerisce che a “Cellini” venisse utilizzata una tecnica edilizia piuttosto povera che prevedeva l’impiego, per queste modeste abitazioni, di calcare locale e di “tufina” (calcarenite ridotta in polvere) che, impastata con acqua, fungeva da legante.
Tra i manufatti fittili rinvenuti quelli che rivestono una maggiore importanza, dal punto di vista cronologico, sono i frammenti di terra sigillata africana ed italica, di età medio-tarda imperiale (II/VI secolo d.C.). La presenza di frammenti di ceramica a pasta grigia rimanda ad una frequentazione dell’area da riferire all’età tardo repubblicana (II/I secolo a.C.), fase in cui questa classe ceramica era particolarmente diffusa. I frammenti di ceramica africana da cucina rinviano ad un orizzonte cronologico compreso tra la seconda metà del II e gli inizi del III secolo d.C. All’età medievale – invece – sono da riferire i due frammenti di ceramica dipinta a bande strette e larghe (VII-XV sec.).
Il rinvenimento di alcuni frammenti relativi a grandi contenitori documenta l’esistenza di strutture adibite a deposito di derrate alimentari, che in un insediamento rustico di età romana erano adiacenti a quelle di carattere residenziale. La presenza di queste ultime è attestata dalla gran quantità di terra sigillata africana ed italica (vasellame di pregio utilizzato generalmente dal dominus della villa e dalla sua famiglia) e di ceramica da dispensa e da fuoco rinvenute a “Cellini”.
Il materiale fittile – per concludere – potrebbe essere riferito ad un’epoca compresa tra l’età tardo repubblicana e quella medievale, anche se la sua frammentarietà e la carenza di reperti diagnostici non permettono di essere precisi, ancor più in assenza di indagini stratigrafiche.
Immediatamente a NO dall’area in oggetto è stata individuata una cisterna a sezione quadrangolare, scavata nelle formazioni calcaree, profonda 50 cm. e con le pareti intonacate. Attiguo ad essa vi è un pozzetto, la cui imboccatura è pressoché circolare con un diametro di 50 cm., profondo 40 cm. Riguardo alla natura e alla cronologia delle cavità in oggetto non si può dire nulla di certo. Non è raro rinvenire simili strutture nei pressi di insediamenti d’età romana. La loro realizzazione – comunque – potrebbe anche essere riferita ad epoche più recenti ed attribuita alla civiltà contadina.
CONCLUSIONI.
L’insieme dei dati a disposizione documenta la presenza, a partire dall’età tardo repubblicana, di un piccolo insediamento rustico a carattere agricolo.
Due ulteriori aree di frammenti fittili d’età romano imperiale (III/VI secolo d.C.), relative a fattorie di medie dimensioni, sono state individuate lungo la Strada Provinciale che collega Depressa a Castiglione d’Otranto[13] e nel territorio di Vitigliano[14].
Si tratta di insediamenti rustici distribuiti lungo l’itinerario di un’importante arteria viaria: la via ‘Sallentina’ (fig. 7)[15]. Questa, a partire dall’età messapica, collegava Taranto a Vereto (attraversando i centri abitati di Manduria, Nardò, Alezio ed Ugento) da dove proseguiva verso Otranto passando da Vaste. Uggeri, sulla base di una tradizione storica tramandataci da Plinio, ipotizza – riguardo al tracciato della via ‘Sallentina’ che insiste sugli attuali territori di Andrano, Diso, Ortelle e Vaste – un percorso il “cui andamento di massima si può riconoscere nella strada campestre, delimitata da muri a secco, che corre ad ovest dello stradale per Andrano e per Diso, fiancheggiando la masseria del Pino e la Fiusca e poi Ortelle, che ha attratto la viabilità di questa zona. Lo stradale moderno tra Ortelle e Vaste interseca più volte la vecchia strada, che aveva andamento serpeggiante. Si entrava così a Vaste dalla porta rivolta a sud […]”[16].
La strada messapica, il cui tracciato si manteneva più interno per lambire la città di Vaste, è stata integrata – nel corso del IV sec. d.C. – con un’arteria che, staccandosi dalla precedente nei pressi dell’odierno centro abitato di Depressa, giungeva ad Otranto. Il percorso paracostiero di quest’ultima, che toccava Castro e tutti i porti vitali sulla via per l’Oriente, partendo da Depressa proseguiva verso “contrada Sassani” passando di fronte “alla Madonna dell’Artica presso Andrano”; la strada lambiva poi l’insediamento rustico di “Cellini” e puntava “quindi per Marittima, che si è sviluppata lungo il suo andamento ondulato. Lo stradale prosegue per il convento di San Francesco, il Casino e Castro Superiore, l’antico Castrum Minervae […]”[17]. Lo scalo di Castro, in età imperiale e tardo antica, rivestì un ruolo molto importante per la rete di insediamenti che, ubicati nel suo entroterra, sembrano aver raggiunto ora l’apice della loro prosperità. Fra essi vi è il sito di “Cellini”, ubicato a circa 5 km dal porto di Castro, servito anch’esso, come visto, dalla via ‘Sallentina’.
Fig. 7: viabilità salentina in età romana (Uggeri 1983).
La presenza dell’approdo e dell’importante arteria viaria permetteva agli insediamenti rustici di trarre benefici dalle principali correnti del traffico commerciale di ambito mediterraneo. Una conferma a ciò proviene dal rinvenimento a “Cellini” di anfore commerciali (del tipo definito Late Roman Amphora 1 e 2), destinate al trasporto di olio e vino, provenienti dalle isole dell’Egeo e di ceramiche di produzione africana (terra sigillata e ceramica da cucina).
L’insieme delle evidenze archeologiche, riguardo alle fasi finali di “Cellini”, documenta che l’abbandono del sito sia da riferire al VI sec. d.C. Si tratta di un destino che accomuna quasi tutti gli insediamenti rustici di età tardo romana, a seguito delle difficoltà politiche ed economiche dovute al crollo dell’Impero Romano d’Occidente (V sec. d.C.) ed agli effetti della guerra greco-gotica (535-553) che sancì la riconquista bizantina della penisola salentina ad opera di Giustiniano. I Bizantini, dopo il collasso della forte autorità centrale di Roma, operarono una riorganizzazione amministrativa del territorio. Nuovi modelli insediativi – infatti – caratterizzano il periodo compreso fra il VI ed il VII sec. d.C., quando compaiono numerosi insediamenti in aree che non hanno restituito tracce relative a precedenti abitati[18].
La presenza a “Cellini” di rari frammenti fittili attribuibili all’età medievale attesta la sporadica frequentazione del sito anche durante questa fase alla quale – verosimilmente – occorre rifarsi per ricostruire le più antiche vicende del vicino centro abitato di Andrano. Il suo sviluppo urbanistico, infatti, ha raggiunto il suo apice nell’erezione del castello, le cui più antiche fasi sono da riferire al IX secolo.
Contributo pubblicato nella miscellanea “Januae. Ricerche e studi salentini” (II ed.), a cura di Martella R., Tricase, 2011, pp. 121 – 132.
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NOTE
[1] Arditi 1879.
[2] Rizzo 2004.
[3] Arditi 1879.
[4] Marti 1931; Pantaleo 1978.
[5] Pantaleo 1978.
[6] Pantaleo 1978.
[7] Boccadamo 1983.
[8] Arthur 1997.
[9] Arditi 1879.
[10] La prospezione di superficie è stata effettuata nell’ambito del Progetto di Servizio Civile della Pro Loco di Andrano denominato “Le tradizioni in Puglia. Itinerari turistico-culturali, Provincia di Lecce”, che ha previsto il censimento, la catalogazione e lo studio delle strutture in pietra a secco presenti nel territorio di Andrano. Si ringraziano il presidente della Pro Loco di Andrano – dott. Giuseppe Urso – e il segretario ed Operatore Locale di Progetto – sig. Antonio Fracasso – per la disponibilità alla divulgazione dei dati qui presentati.
[11] Lo studio particolareggiato di questa classe ceramica ha avuto inizio nel XIX secolo ed ha portato – grazie alle differenze nella tipologia delle forme vascolari e delle loro decorazioni (a rotella, a matrice, a stampo, ecc.) unitamente al differente livello tecnico che caratterizza la produzione (ad es. i diversi gradi di depurazione dell’argilla, l’uso di vernici più o meno liquide e lisce, la presenza di pareti più o meno sottili, ecc.) – all’individuazione di vari tipi (A, A/D, C, D, C/E, E) e sottotipi (ad es.: A1, A2, C1, C2, D1, D2) oltre che all’esatta localizzazione dei luoghi di produzione. Questi ultimi sono dislocati lungo le coste dell’Africa settentrionale e, in particolare, in Tunisia. Le prime produzioni di terra sigillata africana risalgono alla II metà del I sec. d.C. (età Flavia) e si impongono, in tutti i porti del Mediterraneo, a partire dal II-III sec. d.C., con il tipo A. La presenza dei prodotti ceramici africani, in tutti i mercati mediterranei, è una diretta conseguenza del peso economico-produttivo che le province hanno rivestito durante l’età imperiale. Le naves onerariae (grandi navi commerciali) partivano dalle coste dell’Africa settentrionale cariche di generi alimentari (olio, grano, pesce salato e i suoi derivati – fra i quali delle conserve di pesce come il garum – ecc.), di schiavi, di fiere e del vasellame in terra sigillata africana considerato come merce “parassitaria” (di secondaria importanza). L’apogeo delle importazioni dall’Africa Proconsolare e con esse della terra sigillata africana si raggiunge dal IV alla metà del V sec. d.C. (tipo C e D). L’invasione e la dominazione vandalica dell’Africa settentrionale (440 – 540 d.C.) non hanno comportato l’interruzione dell’attività delle sue officine artigianali. Questa ultima si è protratta sin dopo la conquista bizantina, avvenuta nel corso del VI secolo. I prodotti ceramici di terra sigillata africana non giungeranno più, a partire dalla seconda metà del V sec. d.C., nei mercati del Mediterraneo orientale (conquistati dalle più economiche ceramiche di: Focea, Pergamo, Cipro ed Egitto). Il flusso verso il Mediterraneo occidentale, invece, si protrae (tipo D) sino al VII sec. d. C., quando avviene l’invasione araba dell’Africa (647 – 698 d.C.). Contestualmente alla fine del potere bizantino, nel territorio africano, termineranno sia i suoi rapporti commerciali con l’occidente che la produzione di terra sigillata africana (Gandolfi 1994).
[12] La ceramica dipinta a bande larghe caratterizza la produzione vascolare alto medievale (VII-XII sec.), mentre quella a bande larghe è tipica del basso Medioevo e dell’età rinascimentale (metà XII-XVI sec). In entrambi i casi la decorazione presenta generalmente i colori: rosso, bruno scuro e nero. I loro luoghi di produzione, nel Salento meridionale, erano Ugento (come dimostra il rinvenimento di scarti di fornace, relativi a questa classe ceramica, in località Priore) e Cutrofiano (in località Badia è stato identificato un centro di produzione di ceramica dipinta).
[13] Mastria e Nuzzo 2007.
[14] Auriemma 2004.
[15] Con il termine convenzionale di via ‘Sallentina’ – in mancanza di fonti antiche – gli studiosi hanno indicato l’itinerario più lungo che ha interessato l’omonima penisola nell’antichità. Si tratta di una strada paralitoranea che da Taranto giungeva ad Otranto passando per Vereto (poco distante dal Capo Iapigio), attraversando la subregione che gli antichi consideravano abitata dai Sallentini. Questa via costituiva il naturale prolungamento della via Appia. Alcuni studiosi – erroneamente – l’hanno ritenuta una continuazione della via Traiana, assegnandole questa denominazione. Non vi è – tuttavia – alcun contatto diretto tra le due strade essendo le stesse unite dalla via Traiana ‘Calabra’. La sua principale funzione, in età romana, fu quella di collegare il porto di Otranto con la via Appia, in alternativa alla corrispondente navigazione di cabotaggio. Strabone, a tal proposito, riteneva più conveniente il percorso terrestre: questo tratto di costa salentina – bassa, sabbiosa e ricca di secche – scarseggiava, in effetti, di strutture portuali. La Tabula Peutingeriana è l’unica fonte antica dalla quale è possibile ricavare lo sviluppo complessivo della via ‘Sallentina’. Questo dato suggerisce che la via in oggetto fosse entrata a far parte del cursus publicus ed inserita nei documenti ufficiali del servizio postale romano solo a partire dal IV secolo d.C. Le stazioni della via ‘Sallentina’ sono: Taranto, Manduria, Nardò, Alezio, Ugento, Vereto, Castro e Otranto per un percorso complessivo di 109 miglia (circa 161,5 Km). Il tracciato della via ‘Sallentina’ in età imperiale differiva rispetto a quello messapico nel tratto Vereto-Otranto. Nel primo – infatti – ci si avvaleva della variante per lo scalo di Castro, in un percorso che congiungeva tutti i porti vitali sulla via per l’Oriente. Nel secondo – invece – l’importante città messapica di Vaste, stazione intermedia verso Otranto, rendeva il percorso più interno ed occidentale (Uggeri 1983).
[16] Uggeri 1983.
[17] Uggeri 1983.
[18] Arthur 1997.
BIBLIOGRAFIA
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