Dal Cielo in giù
di Melissa Calo’ *
Estate del 1988. Non è propriamente un’immagine a prendere forma per prima nel cervello, quanto piuttosto un odore dolce. Un odore di zucchero e mandorle che diventano stecche marrò e lucide sulle bancarelle. È il profumo della cupeta.
Sento il ronzare dei generatori di corrente dietro le bancarelle, dietro la muraglia dei furgoni Ducato alternati a qualche Ford Transit. I bambini per mano, le mamme con gli occhiali fumè enormi, i capelli corti e crespi, modello unisex per la moda che decenni dopo avremmo etichettato orribile per usare una parola garbata. La gente, tanta gente che avanza accalcata ondeggiando.
Poi, in piazza, la banda attacca.
In prima fila, per l’anagrafe comunale Cosimo Fuso, per l’anagrafe popolare lu Minu Mpizzapasùli, s’è fatto trascinare dal nipote la sedia dal garage di casa perché a teatro, si sa, bisogna stare comodi e non avere distrazioni. O, meglio, l’addi potane fare cinca olane, ma a lui, pettegolezzi e cicaleccio lasciati alle spalle, non importa niente, ora. Seduto in pizzo in pizzo alla sedia, gambe unite, le mani a calotta sull’impugnatura del bastone davanti a sé, ha lo sguardo concentrato sui concertatori. Pare che l’orchestra la deve dirigere lui. Cavalleria Rusticana, Il Trovatore, la Turandot, sa le arie tutte a memoria. Cosimo tiene, ma non è manco certo, la terza elementare e l’esperienza di terzo anno di perfezionamento post Conservatorio. Ma non il Conservatorio quello di Monopoli, none, è il Conservatorio della Madonna dell’Assunta.
Ogni volta, ogni anno, il quindici di agosto, Cosimo, nato da una tabacchina del Salento ottantadue estati prima, muore con la Càrmen, la sigaraia di Toledo. Quando gli ottoni attaccano per la marcia trionfale dell’Aida, poi, l’emozione rrizzacarni arriva alle stelle, da un momento all’altro forse potrebbero entrare davvero in piazza gli elefanti egiziani dall’angolo del bar cavalcati dalle caste dive con la voce da soprano e le mminne imperiali. Vabbène e tutto la finzione scenica, ma ci vuole un surplus di convinzione a cantare la gelida manina di Mimì a metà agosto!
Cosimo è presissimo, il mento va e su e giù, a destra a sinistra, a scatti, non solo in sintonia con il braccio del Maestro, ma se quello smette di dirigere con la bacchetta, non si farebbe problemi ad intervenire brandendo il bastone. Lui sa pure quando devono attaccare i fiati. Cosimo imprime forza nelle dita dei clarini e dei piatti, insuffla energia nei polmoni degli strumentisti a fiato. Signoramia, agosto è agosto, si suda deddìu sou, si suda dentro questi costumi della festa, si suda sotto il peso delle trombe, e tutti quanti squajamu sotto la cassarmonica che pure serve ad amplificare il suono in questo teatro da campo stracarico di lampadine che non scherzano proprio.
Ogni lampadina ad incandescenza un watt, ovvero una candela: – spegni la luce, che stanno ardendo 100 candele! – Urlava mia madre, e così ci eravamo allenati di sera ad attraversare la fila di stanze di casa al buio tanto che che lo spigolo della consolle aveva detto alla rotula del ginocchio di tenere pacienzia. Bisognava risparmiare.
Il Comitato Festa no, non aveva problema di candele, in prìmissi perché la protagonista era la Madonna e i santi, manco a dirlo, vanno onorati, in secundissi perché la cassetta delle offerte era stata buona quell’anno. Il giorno dopo avrebbe cantato Scialpi, non era il momento certo di fare economie e figure con la gente forestiera per non dare benzina all’arte del malàngo. Come si dice?! A casa bruciata minti focu, fanculu, 5 gruppi elettrogeni di sostegno all’Enel e possiamo accendere tutto sto paese, dalla prima all’ultima strada, da nord a sud, da est a ovest, un incrocio ad asterisco pienopieno. Siamo nel 1988, io ho otto anni, tutta la vita davanti e la certezza come il nome che porto che il tempo dell’abbondanza e dello scialo non sarebbe finito mai.
La cassarmonica è una cupola di dieci, cento, migliaia di watt; e migliaia e migliaia di candele gialle rosse verdi brillano e colorano la piazza, corrono corrono intorno al perimetro, sollevate in alto dai pali, tirate dai fili di ferro, disegnano figure uguali uguali ai ricami ad intaglio della tovaglia fatta dalla zia Rosetta, quella con la quale la mamma ha coperto il tavolo del salotto quando la statua di San Rocco è entrata in casa a maggio. Certi disegni mi fanno venire in mente le piastrelle del pavimento della nonna, o, meglio, i centrini all’uncinetto che fa mia sorella Antonella copiandoli da Rakam nei pomeriggi d’inverno appiccicandosi al calore del camino.
A dire il giusto, qualcuno che abita più lontano dal centro, con l’aiuto dei vicini, ha voluto fare un suo, personalissimo preludio con i lampioni di carta ma non c’è proprio paragone. Per dirla alla Minu maniera, la parazione di quest’anno è una specie di Bolero di Ravel. Pensateci un attimo, il paragone ci sta. Il Bolero si sviluppa ripetendo ostinatamente un tema. Le frasi musicali sono per me gli archi che iniziano da Corso Umberto I subito dopo il distributore di benzina.
Prima, venendo da casa mia e camminando tra la folla le ho passate lentamente tutte in rassegna. Guardandole dal basso verso l’alto mentre le attraversavo una per una, mi dicevo che sono belle, niente da dire, ma quando arrivi all’inizio del corso e ti giri su te stesso guardandoti indietro, il colpo d’occhio è fe-no-me-na-le! Viste in prospettiva, sembrano formare una galleria, una copertura luminosa verso il luna park o il paradiso.
Ma è arrivati in piazza che inizia lo spettacolo vero e proprio. Il motivo melodico del Bolero continua ad essere sempre quello solo che è potenziato dall’ingresso nell’esecuzione di altri strumenti, oramai è una folla orchestrale e così mi pare la muraglia di luminarie che ho davanti agli occhi. Riconosco i riccioli degli archi, ci sono le stesse tonalità, con l’aggiunta di colonne, spalliere, capitelli, squadri. Già la piazza mi piace, il barocco che è passato sulle
chiese e sui palazzi è come il pennello di fard che mia zia Rosa passa sul viso ogni mattina.
Pure che non esce di casa quasi mai, la rende più carina, le porta la contentezza dei giorni di festa nelle sue giornate semplici e tutte uguali. Dicevo, già la piazza mi piace ma con la parazione della festa è un’altra cosa. Non me lo sarei motivato del tutto nemmeno gli anni dopo, anche quando Fernando Manno nei suoi “Secoli tra gli ulivi” lo spiegò sicuro meglio di me, ma credo che il gusto ad abbellire, ad adornare, uno lo ha nel sangue. Davanti a me una signora con l’indice e il medio becca il braccio della vicina e con una faccia da cigli compiaciuti le dice: -“Cumare, ci imu dire, aaaaaah?! St’annu ss’ane propriu mmurtalati!”.
* Racconto pubblicato su quiSalento, numero ottobre 2020, pp. 66-69.