DALL’AREA ARCHEOLOGICA ALLA ZONA INDUSTRIALE. Un emblematico caso di pessima gestione delle risorse di un comprensorio del Capo di Leuca.
di Marco Cavalera, Marco Piccinni
In tempi di crisi la realizzazione di nuovi impianti industriali non può che portare una ventata di aria fresca alla popolazione di quella famigerata “Terronia” esasperata da anni di disoccupazione e precariato; “sfruttata” a partire da quel 17 Marzo 1861 come un immenso portafoglio dal quale attingere denaro alla bisogna. Il regno delle due Sicilie era il terzo in Europa per industrializzazione, posizione di prestigio persa in seguito alla proclamazione del neonato stato Italiano a causa del decentramento delle attività industriali e commerciali del sud per favorire lo sviluppo del ben noto Triangolo Industriale. Sulla scia della massiccia azione di sviluppo intrapresa dai nostri avi, il Capo di Leuca ha deciso di riprendersi il suo posto nel podio dell’industrializzazione avviando la costruzione di un imponente zona industriale in una località limitata dai comuni di Tricase, Miggiano e Specchia. Iniziativa decisamente lodevole. Ampie strade, numerosi lotti sui quali realizzare stabilimenti adeguati per avviare importanti attività volte alla ripresa economia di un sud incapace di far sentire la sua voce nel coro dei potenti. C’è un solo una piccola pecca in questo grande disegno di rinascita. A distanza di poco meno di 10 anni dalla sua realizzazione, questa mitologica zona industriale, che come l’araba fenice avrebbe dovuto far risorgere questa finibus terrae dalle sue ceneri, vige in uno stato di totale abbandono. Stabilimenti inutilizzati, strade deserte, cantieri interrotti. L’opera che avrebbe dovuto riscattare il sud è risultata l’ennesimo fallimento, un altro errore per il quale è stato pagato un enorme prezzo: 1500 alberi di ulivo abbattuti e 5000 anni di storia asfaltati. La zona industriale è stata costruita infatti in località Rutti-Sala, su un importante sito archeologico frequentato da diverse popolazioni nelle età dei metalli (da 5000 a 3000 anni fa).
Nella zona è ancora possibile vedere alcune delle decine di grotte scavate nel banco argilloso, rese inaccessibili da una florida vegetazione di rovi e deturpate da alcuni stabilimenti industriali che le sovrastano. Possibili ripari per animali e uomini che avevano deciso di stabilirsi in un luogo così fertile, così bello. Lì, dove poi sarebbero morti e interrati sotto tumuli funerari ancora visibili e inviolati. Un paesaggio bucolico contrassegnato ancora in alcuni punti, quelli non ancora contaminati dalle ruspe, da splendidi e antichi alberi di ulivo, la vera ricchezza del Salento ormai desueta e fuori moda nel terzo millennio. Tra la vegetazione spontanea si riescono ad individuare le fondazioni di antiche capanne e tracce di solchi di carraie scavati nel banco di roccia, che terminano la loro corsa sotto obrobriosi e inutili (in quanto inutilizzati) capannoni.
Un occhio attento può ancora individuare al suolo schegge di selci, diverse tipologie di ceramiche dell’età del Rame e del Bronzo, tra cui si distinguono frammenti decorati a ditate e a solchi paralleli, ognuna delle quali è testimone di un diverso periodo che ci riporta indietro di secoli, in un lontano passato in cui l’uomo cominciava a padroneggiare la natura con il suo intelletto e quelle abilità donategli dall’evoluzione. Quella stessa evoluzione che un tempo privilegiava gli individui più intelligenti o che meglio manifestavano capacità di adattamento e sopravvivenza, oggi sembra aver fatto un passo indietro.
Nella medesima area, ricca di sorprese e intrisa di mistero, una ventina di anni fa vennero recuperate, al di sopra di un cumulo di pietre che “puzza di antico”, due enigmatiche sculture in pietra: una ha il volto “sfigurato”, il collo appena accennato, la nuca intonacata e dipinta, come a significare dei capelli, l’altra presenta dei lineamenti del volto ben definiti (occhi, naso e bocca), un busto appena abbozzato, in parte intonacato con evidenti tracce di colore a bande grigie/grigio chiare. Le sculture litiche di Miggiano trovano uno stretto confronto con le stele daunie, ossia sculture in pietra locale rinvenute nel territorio della Piana Sipontina (Foggia), riferite cronologicamente all’età del Ferro, tra il IX e il VI secolo a.C. La funzione di questi manufatti, probabilmente, era quella di sema, segnacolo di tombe che, nel caso della Piana di Siponto, sono del tipo a fossa rettangolare, completate superiormente da una copertura di pietre disposte a formare il tumulo, sul quale poteva essere collocata, infissa verticalmente, la stele. L’evidente confronto con le stele daunie e la presenza di piccole specchie, nella stessa area, permettono di ipotizzare un loro uso originario come semata di tombe a tumulo.
Secondo gli autori della scoperta, i signori Luigi Carbone e Luigi Marra, la scultura che presenta il volto sfigurato e senza lineamenti raffigura una divinità funeraria, con la funzione di veicolare un messaggio che riguarda il destino ultimo dell’uomo, richiamato nell’Antico Testamento della Bibbia: “[…] tu non puoi vedere la mia faccia, perciochè l’uomo non mi può vedere, e vivere” (Esodo, XXXIII, 20). Per quanto riguarda la seconda scultura (quella con i lineamenti del volto più definiti), gli stessi scopritori ritengono che rappresenta un defunto o un guerriero.
Nonostante i flebili tentativi della macchia mediterranea con i suoi vivaci colori. La natura fatica a riprendere possesso della terra che le è stata sottratta per l’adempimento a diversi fini di “utilità sociale”: una discarica a cielo aperto dove è possibile trovare davvero di tutto, da arredi per la casa a sanitari, da materassi a utensili di vario genere. Un attrezzatissimo “mercatino” dell’usato e della stupidità che il grande fisico Albert Einstein definì in un suo celebre aforisma ,“infinita”, proprio come l’universo, anche se su quest’ultimo aveva ancora dei dubbi a riguardo.
Non lontano da questa bucolica discarica archeologico – industriale è la contrada Petrì-Alfarano, testimone di un’intensiva attività di estrazione dell’argilla che rese Lucugnano famosa per l’abilità dei suoi maestri figuri. Queste due contrade sono ora separate da un’ampia strada asfaltata che ospita di frequente corse motociclistiche clandestine. Un’altra strada sulla quale è stata disegnata una moderna pista da go-cart, separa quest’area archeologica da un altro lotto anch’esso designato per la realizzazione di stabilimenti industriali, sul quale si erge una grande pajara in ottimo stato di conservazione, ed un monolite eretto verticalmente ad un metro dall’ingresso. La disposizione del monolite non è casuale. Un blocco delle medesime dimensioni a posto alla sua base orizzontalmente al terreno, sormontato poi da massi di dimensioni più modeste. Nel terreno circostante, rari frammenti di ceramica ad impasto dell’età del Bronzo e di ceramica comune e da mensa romana, tra cui la celeberrima sigillata africana, indiziano la presenza di antichi insediamenti umani stanziati sul pianoro prospiciente il Mar Adriatico da cui, nelle limpide giornate di tramontana, si intravedono distintamente le montagne dell’Epiro e le isole greche di Fanò e di Corfù.
La particolare disposizione del monolite rispetto alla pajara potrebbe essere associata ad un culto di fertilità. L’antica devozione dei greci prima e dei Romani poi per Priapo, un dio fortemente dotato nella sua virilità, dall’anagrafica ancora incerta. Probabile figlio di Giove e Venere, maledetto da Giunone che lo rese “diverso” ma non per questo meno divino. Per i suoi “attributi” divenne il dio protettore di campi e raccolti, della fecondità e delle fertilità. Per invocare il suo intervento e la sua protezione venivano infisse nel terreno delle colonne di pietra dalla forma irregolare. Venivano solitamente posti all’ingresso di un podere e in misure diverse anche all’interno delle abitazioni patrizie tra arazzi a tema. Con il tempo questi monumenti devozionali si sono evoluti, divenendo una coppia di colonne sormontate spesso da piccole piramidi a gradoni realizzate sovrapponendo massi di dimensioni sempre più piccole, o da tronchi di cono o piramide. Se il monolite della zona industriale rappresenta il fallo di Priapo, la porta di ingresso della pajara potrebbe invece ricordare l’organo genitale femminile, che si unisce al monolite in un atto di creazione, fecondità. Un magnifico e significativo messaggio di vita, di continuità, non isolato nel Salento se si pensa ad altri simboli affini come la pietra della fecondità posta all’interno della chiesa di San Vito a Calimera, o le famosi veneri di Parabita.
La zona industriale di Tricase-Specchia-Miggiano si presenta dunque come un complesso e significativo caso di studio dell’evoluzione antropologica dell’uomo. Quando abbandona la vita nomade per dedicarsi all’allevamento e all’agricoltura. Quando apprende come lavorare l’argilla prima e i metalli poi. Quando divenne sufficientemente intelligente da progettare e costruire ripari per se e per i propri animali o sofisticati strumenti da lavoro per poi infine divenire orribilmente stupido da distruggere con le ruspe e il cemento il luogo che per secoli ha chiamato “casa”.
Bibliografia:
Cavalera M., Medianum. Ricerche archeologiche nei comuni di Miggiano, Montesano Salentino e Specchia, Tricase 2009.
Sitografia: