I riti della Settimana Santa nel Salento
di Alessio Stefàno
Calendari rituali e immagini cultuali
La Pasqua rappresenta la festa più importante del mondo cristiano Orientale ed Occidentale. Com’è noto, ufficialmente, la Settimana Santa si apre con la Domenica delle Palme e si conclude il Sabato Santo. Nel corso di essa, si ricordano gli eventi di fede correlati agli ultimi giorni terreni di Gesù: quelli della sua Passione, della sua Morte sulla Croce e della sua deposizione nel Sepolcro prima della Resurrezione.
I “sabburchi” (sepolcri), deposti sugli altari delle chiese il Giovedì Santo (foto di Alessio Stefàno).
Al calendario liturgico ufficiale, tuttavia, si affiancano delle celebrazioni di carattere più popolare, che affondano le loro radici nel mondo cristiano antico e medievale; ne è un esempio la ricorrenza dell’Addolorata, celebrata il venerdì precedente alla Domenica delle Palme. Prefigurazione della Settimana Santa, esso è il giorno in cui ricorre la memoria dei Sette Dolori di Maria. Tale titolo si basa su alcuni momenti della vita della Vergine descritti nei Vangeli: La Profezia dell’anziano Simeone sul Bambino Gesù, La fuga in Egitto della Sacra famiglia, La perdita di Gesù nel Tempio, L’incontro di Maria e Gesù lungo la Via Crucis, Maria ai piedi della Croce, Maria accoglie nelle sue braccia il Figlio morto, Maria vede seppellire Gesù.
A livello popolare cristiano, segnatamente nei paesi meridionali, culti e relative pratiche rituali, non possono prescindere dalla rappresentazione materica del Sacro (Buttitta 2012, p. 697). I dolori della Vergine si presentificano, dunque, nella sua immagine: la Madonna appare vestita di nero; una, cinque o sette spade le trafiggono il cuore; il fazzoletto nella sua mano ha appena asciugato le lacrime versate per la perdita dell’amato Figlio; il suo sguardo è rivolto a cielo, verso il Padre. Quante madri, nella storia, non si saranno identificate nel suo dolore, a seguito della perdita di figlio o per le pene e le afflizioni della vita quotidiana? È questa la ragione della profonda diffusione, ieri come oggi, del culto della Vergine Addolorata: l’immensa umanità della sua figura e del suo profondo dolore.
Madonna Addolorata (foto di Alessio Stefàno).
La memoria dell’Addolorata è ancora oggi particolarmente viva e sentita a Gallipoli. Qui, a mezzogiorno in punto del venerdì il simulacro della Vergine esce dalla sua chiesa, alla presenza di una gran folla in preda alla commozione, per recarsi in Cattedrale, per poi – dopo la Messa e l’esecuzione della tradizionale Frottola (un oratorio sacro in musica) – percorrere tutte le strade della città (Perrone 2003, pp. 58-60).
Processione del Venerdì Santo a Gallipoli (foto di Gianluca Tonti).
Memorie di grecità
In alcuni riti della Quaresima e della Settimana Santa, il Salento serba ancora memoria del suo antico legame col mondo Bizantino. Ancora oggi diffusa nell’area dell’hinterland gallipolino è la tradizione del Santu Lazzaru o Lazzarenu. Si tratta una questua itinerante, spesso notturna, dove attraverso l’esecuzione di un canto tradizionale che narra le vicende della resurrezione di Lazzaro, amico di Gesù, si raccolgono viveri e generi alimentari (un tempo prevalentemente uova e prodotti caseari).
Ancora oggi nella cultura Ortodossa, il sabato delle Palme è il Sabato del “Santo e Giusto Lazzaro”, la cui resurrezione prefigura l’evento culmine della fede cristiana: la vittoria del Cristo sulla morte (cfr. Stefàno 2020).
Ma un’eco della grecità di questi territori sono anche i canti di Passione (Passiùna) della Grecìa Salentina. Vere e proprie sacre rappresentazioni, queste si svolgevano nei crocevia dei paesi e rappresentavano, in forma itinerante, le ultime vicende della vita terrena di Cristo (cfr. Costa, 2011).
Di chiara derivazione Bizantina è anche la preparazione della cuddhura, (una sorta di pane che poteva assumere varie forme e contenente all’interno delle uova sode) donata come segno beneaugurale o portata in chiesa da bambini e ragazzi la mattina di Pasqua per essere benedetta. Il termine “cuddhura” deriva dal greco κολλύρα, e fa riferimento al pane che rappresenta Cristo. Era in uso, infatti, presso una setta di donne nell’Oriente Bizantino, lo scambio di pani benedetti in occasione di alcune importanti festività (Orlando, 2002, pp. 13-16).
La Grande Settimana
Con la Domenica delle Palme si entra ufficialmente nel periodo rituale della Settimana Santa. È il giorno in cui si ricorda il trionfale Ingresso a Gerusalemme di Gesù, in sella a un asino e osannato dalla folla che lo salutava agitando rami di palma (Gv 12,12-15). In questo giorno una consuetudine assai comune era la realizzazione di crocette e panarieddhi: manufatti in palma intrecciata di varie forme dimensioni. I primi avevano la forma di una croce e, una volta benedetti, si andavano a conservare nelle proprie abitazioni, spesso deponendoli accanto alle immagini dei santi o dei parenti defunti; i secondi, invece, andavano a custodire al loro interno dei dolciumi che venivano poi consumati il giorno di Pasqua.
Il Giovedì Santo segna l’inizio del Triduo pasquale. È il giorno in cui viene commemorata l’Ultima Cena e celebrata l’istituzione dell’Eucaristia. Ancora oggi in tutte le parrocchie (ma un tempo era comune anche nelle chiese minori e nelle cappelle rurali) vengono allestiti gli Altari della Reposizione, nel linguaggio comune chiamati “Sepolcri”. Questi vengono ornati con lampade e candele, con elementi simbolici che richiamano alla presenza del pane e del vino, con fiori; immancabile è la presenza del “grano bianco”, ottenuto da semi lasciati germinare per lungo tempo al buio.
Il Venerdì Santo è il secondo giorno del Triduo Pasquale. È il giorno delle processioni che commemorano i momenti salienti della passione di Cristo. Apre la processione la Croce dei Misteri, un manufatto ricco di elementi simbolici: il calice, la corona di spine, il velo della Veronica, la lancia, i chiodi, il gallo, la tunica, la scala… è il riassunto della Passione che sta per compiersi, o meglio per essere rappresentata. Seguono le varie statue: Gesù nell’orto degli ulivi, il Cristo alla colonna, la Crocifissione, la deposizione nella tomba e, infine, Maria che piange il Figlio morto. Il loro susseguirsi – in ordine rigorosamente cronologico – rende presenti, qui ed ora, i fatti della fede.
La storia della salvezza umana può essere sottratta al tempo e al luogo del mito e rendersi tangibile, attuale. Sono questi i momenti in cui «le barriere spazio-temporali che normalmente separano il fedele e la divinità si dissolvono, consentendo, in quel tempo e in quel luogo, il tempo e il luogo del rito, un contatto diretto e immediato, concreto, fisico» (Buttitta 2012, p. 698).
Ancora oggi, ad alcune processioni, partecipano i Penitenti: figure anonime, scalze ed incappucciate, che si rendono partecipi al dolore del Cristo attraverso dei gesti penitenziali, quali il trasporto di una croce o di pesanti pietre, o ancora il percuotersi il petto e le spalle.
I flagellanti in Terra d’Otranto
Un documento prezioso per aver cognizione di peculiari forme penitenziali un tempo diffuse nelle Processioni del Venerdì Santo è rappresentato da un breve saggio di Pietro Pellizzari, pubblicato nel 1889 nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, dal titolo I flagellanti in Terra d’Otranto. Lo studioso riporta che la pratica del flagellarsi le carni «è ancora d’uso recentissimo e non al tutto cancellato in qualche paese di queste contrade meridionali». La testimonianza proviene dal piccolo borgo di Muro Leccese, nel cuore del Salento:
«E poi cominciano a darsi colle discipline dietro le spalle, che le portano tutte spogliate, e ogni botta che si danno si strappano la carne e s’insanguinano tutti. E se per caso c’è qualche innamorato e passa davanti la ragazza, e (essa) non lo vede bene insanguinato si scombinano, non si vogliono più, chè dice (la ragazza) che non s’è fatto onore, perché chi più si scoia più è bravo» (Pellizzari 1889, p. 348).
Ma tale pratica, sebbene continuasse a resistere, si presentava ormai in una fase di declino:
«Quest’anno dodici soli son quelli che s’hanno da macellare, chè l’anno passato ne furono tutti proibiti ma essi si chiusero entro la chiesa davanti a Gesù Cristo morto, e chi più potè, dette! si stracciarono tutte le spalle, si uccisero, e finì che bisognò si scassasse la porta e si tirassero le discipline di mano» (ivi, pp. 348-349).
Ciò che sorprende è come la pratica della flagellazione abbia non solo uno scopo devozionale; addirittura essa può apparire come qualcosa di necessario, quasi “terapeutico”: «E siccome due anni addietro i carabinieri li andavano seguitando e non si poterono flagellare come d’uso, dissero che s’intesero tutti malandati giacché dicono che quello è sangue c’à da uscire» (ivi, p. 349).
Processione di flagellanti, opera di Francisco Goya (1812-1819). Fonte: wikipedia.
Quasi fuoriuscita dai meandri di una storia dimenticata, tale pratica compare davanti ai nostri occhi quasi come “disturbante” e nel nostro pensiero poco ha a che fare con le forme della religiosità e della devozione. Ma è in una realtà ben determinata che essa prende senso: possiamo definirla quella appartenente alla «cultura della miseria», dove «l’assenza di alternative e di chiare prospettive di ordine sociale e politico» portano gli uomini a rivolgersi, per la risoluzione dei numerosi problemi che affliggono la loro quotidianità, «a un tipo di cattolicesimo, quale è appunto quello popolare, che offre protezione e grazie in cambio di devozioni particolari, di sacrifici, di impegni individuali» (Rossi 1969, p. 107).
BIBLIOGRAFIA:
Buttitta Ignazio Emanuele, Simulacri divini. Ruoli cultuali e pratiche devozionali, in T. Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio del legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, 2012.
Costa Diana, I Passiuna tu Christù. Rito e teatro di una cantica popolare della Grecìa Salentina, «Antropologia e Teatro», n. 2, 2011.
Orlando Luigi, Tesori da salvare. Canti, riti e tradizioni della Pasqua nella Grecìa Salentina, 2002.
Pellizzari Pietro, I flagellanti in Terra d’Otranto, «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», VIII, 1889.
Perrone Cosimo, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli. Tra storia mito e leggenda, 2003.
Rossi Annabella, Le feste dei poveri, 1969.
Stefàno Alessio, Le notti di Lazzaro. Storia di una tradizione popolare salentina, 2020 [In corso di pubblicazione].
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Per ascoltare una bella registrazione di un Lazzarenu, ecco una versione degli Ucci di Cutrofiano (Aramirè): cliccare qui