LA TRADIZIONE DELLA “CAREMMA” NEL SALENTO
di Alessio Stefàno
In una rassegna delle tradizioni popolari della nostra terra, legate al periodo di Pasqua, un posto di rilievo spetta alla caremma, sia per la vasta diffusione in tutto il Salento sia per i tanti significati attribuiti. La voce caremma è l’equivalente, nel nostro dialetto, del termine italiano Quaresima, periodo di quaranta giorni, successivo al Carnevale, che prepara l’avvento della Pasqua.
La caremma è un pupazzo raffigurante una vecchia vestita di nero che si esponeva appesa in alto agli angoli delle strade o ai balconi dopo la mezzanotte dell’ultimo martedì di carnevale. Il pupazzo era stato confezionato nei giorni precedenti da gruppi di vicine di casa, tra i quali si instaurava una vera e propria competizione per riuscire ad esporre la caremma più bella. Veniva realizzato nel modo seguente: si predisponeva un telaio di legno alto un metro e mezzo circa, nel quale si infilava, dapprima, una maglia piena di lana e poi un paio di pantaloni, anch’essi con della paglia dentro. Si era così ottenuto il busto completo di braccia e gambe. Le mani erano costituite da un paio di guanti neri, con all’interno dei fili di ferro, attaccati alle maniche della maglia. Per i piedi si utilizzava un paio di calze nere riempite di paglia e attaccate al bordo inferiore dei pantaloni. Alle calze veniva infilato un paio di scarpe nere. La testa si otteneva avvolgendo della paglia in un pezzo di stoffa chiara e dando all’insieme una forma ovale. Gli occhi, il naso e la bocca venivano rappresentati attaccando dei pezzi di stoffa o disegnandoli con vernice nera o carbone. Al fantoccio si faceva indossare una veste nera lunghissima che lasciava intravedere solo le scarpe; la testa veniva avvolta in un fazzoletto nero lasciando scoperto solo il viso; alla caremma veniva legato all’altezza della vita un vantili (grembiule) nero e le spalle erano coperte con uno scialle sempre nero. Prima di essere appesa agli angoli delle strade veniva corredata di alcuni significativi accessori. Sotto un’ascella si poneva la conocchia ed in una mano il fuso; nell’altra mano si fissava una patata o un’arancia in cui erano conficcate sette penne di gallina. In alcuni casi questo accessorio veniva sostituito da altrettante cuddhure o tarallini: in una tasca del grembiule si metteva un gomitolo di lana. La caremma è la vedova del carnevale e fa la sua comparsa subito dopo la morte del marito. È vestita di nero in segno di lutto e si accinge ad affrontare una vedovanza dura, priva di tutto, dato che il marito l’ha lasciata in miseria. Deve quindi lavorare per pagare i debiti e per poter vivere: per questo motivo si porta appresso il fuso e la conocchia, simboli tradizionali dell’umile lavoro femminile. La patata o l’arancia con sette penne di gallina rappresentavano un rudimentale calendario, per mezzo del quale, la caremma poteva tenere il conto delle settimane di privazione che la attendevano, strappando una penna per ogni settimana trascorsa; stessa funzione avevano le sette cuddhure o i sette tarallini: ne poteva mangiare uno per ogni settimana.
La caremma è un’evidente allegoria didascalica: essa serviva a ricordare ai credenti che la Chiesa stava vivendo un periodo di lutto e si dovevano affrontare giorni di sacrifici e di rinunce. Era necessario, quindi, astenersi, per tutta la durata della quaresima, dal mangiare carne, uova e formaggi. Per condire la pasta fatta in casa, si usava la mollica di pane fritta in sostituzione del formaggio grattugiato.
Alla fine del periodo, ormai terminato il filo da tessere, con l’arancia secca e le penne esaurite, la caremma veniva rimossa dai terrazzi e appesa ad un filo su un palo. Quando il suono delle campane annuncia la Resurrezione, veniva bruciata con scoppi di mortaretti tra l’allegria di tutti e con il fuoco iniziava il periodo della purificazione e della salvezza.
BIBLIOGRAFIA:
C. Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli tra storia, mito e leggenda, CRSEC, Gallipoli 2003.