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Associazione Archès

L’AJARA (AIA) E LA TREBBIATURA DEL GRANO

di Nicola Febbraro

L’uomo e la pietra

Pietre, acqua, terra e sole. Elementi fondanti nelle civiltà umane succedutesi per millenni nel Salento. Particolarmente quella contadina degli ultimi secoli ha saputo trasformare la pietra da elemento di disturbo per le pratiche agricole – si pensi ai banchi di roccia affioranti un po’ dappertutto in lungo e in largo per la Penisola – a materia prima di costruzione di fondamentale importanza.

Fra le tante strutture in pietra realizzate dai nostri avi, per lo più a secco, alcune sono particolarmente suggestive ed hanno rivestito una notevole importanza nell’economia, e non solo, della civiltà contadina.

Un circolo di “piezzi de carparu” (conci di tufo) – più raramente si trattava di un’area quadrangolare – definiva uno spazio che potremmo definire sacro, all’interno del quale, da millenni e sino agli anni ’60/’70 del secolo scorso, si perpetrava, sotto il sole cocente di giugno e più raramente di luglio, un vero e proprio rito per i nostri contadini: la trebbiatura.

Dalla terra al grano

A novembre inoltrato, i chicchi di cereali (orzo e grano su tutti), conservati accuratamente dalla precedente stagione agricola, venivano accolti e curati dalla terra rosso fuoco delle nostre latitudini, ricca di argilla e di ossidi di ferro e povera d’acqua. A partire da questo momento ed a seguito di un incessante lavoro, si giungeva alle infinite distese di spighe dorate, accarezzate continuamente da folate incessanti di vento.

Dalla mietitura alla trebbiatura

Alle operazioni di mietitura, effettuate rigorosamente senza l’ausilio di mezzi meccanici, ma armeggiando con esperienza la sola falce e con le dita della mano esposta alla tagliente lama opportunamente protette, seguivano quelle della trebbiatura all’interno del “cerchio magico” dell'”àjara”.

I preziosi covoni di cereali erano meticolosamente disposti attorno alla stessa ed il loro proprietario (o chi ne faceva le veci) ci viveva a fianco, giorno e notte, in attesa del suo turno di lavorazione.

Le spighe erano sparpagliate sull’aia, battute per mezzo “de lu maju” (grande bastone a sezione quadrangolare) ed in seguito sminuzzate dalla “pasara”, grosso concio di tufo dagli angoli smussati, che era trascinata, in un moto rotatorio incessante, dalla forza motrice di un animale, cavallo in particolare, asino e bue più raramente (fig. 1).

Fig. 1. alcune fasi della battitura delle spighe per trarne il grano (fonte: Ponzi L., Monumenti della civiltà contadina del Capo di Leuca, Galatina, 1981). 

A questo punto non rimaneva che separare la pula (pellicola protettiva/involucro dei chicchi di grano) e le spighe dai chicchi di cereale. Operazione, che richiedeva il supporto del sempre presente vento salentino; le aie, infatti, erano realizzate in aree particolarmente ventilate.

Con l’ausilio “de li furcuni” (attrezzi realizzati in legno, formati da un lungo manico e da un tridente) e di vanghe, sempre realizzate in legno, poi, si lanciava in aria il risultato delle precedenti fasi della trebbiatura (fig. 2).

Fig. 2. Fase della trebbiatura (fonte: https://areaiblea.blogspot.com/2012/08/la-festa-del-grano.html). 

 

Il vento trasportava lontano dall’aia gli elementi più leggeri (spighe e pula), mentre i chicchi del prezioso raccolto rimanevano nell’aia, dov’erano accuratamente raccolti e conservati in appositi sacchi di juta.

Le galline scendono in “campo”

La scena, a questo punto, era occupata dalle galline, che, per l’occasione, vivevano in dei “puddhari” (pollai), realizzati nei pressi dell’aia (fig. 3-4).

 Fig. 3. Aia di loc. Cupa (Patù), con sullo sfondo un caratteristico pollaio.

Fig. 4. Pollaio nei pressi dell’aia di Spigolizzi. 

Vere e proprie strutture a tholos (pajare/trulli) in miniatura venivano aperte e permettevano ad un nugolo di galline affamate di “scarnizzare” (razzolare) qua e là sull’aia, fra i resti della trebbiatura, alla frenetica e vorace ricerca di chicchi, anche di quelli rimasti incastrati fra basolo e basolo. L’aia, così facendo, nel volgere di pochi minuti, tornava ad essere linda e pulita e pronta ad accogliere nuove spighe da trebbiare.

Le aie: veri e propri monumenti della civiltà contadina

Di aie ve ne erano di varie tipologie. Si è detto che erano per lo più circolari ma più raramente anche quadrangolari. Singole ma talvolta realizzate in coppia. Disposte su alture o comunque in luoghi particolarmente ventilati. Ottenute spianando il banco di roccia (fig. 5-6) o costruite di sana pianta, sopraelevate, rispetto al piano di campagna, e basolate (fig. 7-8). Delimitate da conci di tufo disposti orizzontalmente ed intervallati da talaltri messi in opera verticalmente, generalmente in corrispondenza dei principali punti cardinali.

Fig. 5. Aia ricavata regolarizzando il banco di roccia in territorio di Salve.

Fig. 6. Aia ricavata regolarizzando il banco di roccia in territorio di Morciano di Leuca.

Fig. 7. Aia sopraelevata coperta da basoli, nei pressi di Masseria San Lasi (Salve). 

Fig. 8. Particolare del basolato di un’aia. 

Su questi ultimi, sovente, vi erano incise a rilievo delle croci, simboli apotropaici, molto diffusi nell’ambito della civiltà contadina.

La trebbiatura avveniva sotto il sole cocente. Alla sua ultima fase si dedicavano sia le giovani donne, con l’ausilio “de lu farnaru” (setaccio rotondo), che gli uomini con le vanghe e “li furcuni”.

Quando il vento era favorevole, la pula e la polvere del grano si diffondevano nell’aria e birichine si infilavano tra gli indumenti sia delle donne che degli uomini, provocando forti pruriti ed irritazioni. Per questa ragione, gli uni e le altre svolgevano queste operazioni vestiti di tutto punto.

Gli uomini, ad esempio, indossavano dei lunghi pantaloni, delle camicie a maniche lunghe, foulard avvolti attorno al collo e cappelli a larghe tese.

L’epilogo

Memorie di un tempo andato. Di quando tutto era prezioso ed aveva valore. Di quando il pane era frutto di fatica e sudore e la fatica era per tutti (quasi), grandi e piccini, il sale della vita.