“MESCIU DONATO” E L’ARTE FIGULA A LUCUGNANO
di R. Martella
La musica della creatività…ecco quello che scaturisce dal movimento del tornio, morbidamente mosso dalla danza di un piede, mentre le mani, accarezzando con delicata forza, inumidendola di tanto in tanto, plasmano la creta. Gesti che ricordano la notte dei tempi. Gesti che si ripetono in un moto continuo alla ricerca di forme necessarie al quotidiano ed anche all’apparenza semplice.
L’incontro con “Mesciu Dunatu” di Lucugnano avviene nella penombra della sua bottega mentre fa danzare il piede sul tornio, alla ricerca di forme da creare con una piccola quantità di argilla originaria delle cave del suo paese, ritrovata con grande fortuna, in quanto presente nelle cisterne ripulite di un vecchio laboratorio, dove i discepoli, operando e commettendo degli errori “a na vutata d’occhiu” (furtivamente), eclissavano i loro malfatti nelle vasche. “Mesciu Dunatu” continua a far girare il tornio, rimembrando i suoi trascorsi e le difficoltà incontrate per imparare l’arte ed a ben preparare la materia prima, che comunque in Lucugnano non era delle migliori. Le cave presenti in quel territorio offrivano una creta certamente non pura, come in tanti altri luoghi, e doveva maggiormente esser lavorata prima dell’uso. Le cave, situate nei pressi del paese, hanno fornito tanto materiale per il lavoro, chiedendo un tributo in vite umane, come in tutti i luoghi simili. Il lavoro in cava veniva svolto senza alcun accorgimento ed era durissimo; vi era chi sfruttava il proprio terreno, chi invece affittava o cavava quella quantità di creta necessaria, cedendo la decima. Certamente vi era chi, tornato al mattino presto da una festa patronale di un paese vicino raggiunto in bicicletta, e avviluppato dalla musica della banda e dalle luci e senza orologio, giungeva a casa e, credendo di potersi riposare, appena steso sul “saccone”, la voce del padrone, il padre, lo richiamava alla realtà. Durezza della vita.
La creta, sparsa per terra e su un sottile strato di cenere, veniva pestata più volte per poi essere passata al setaccio e renderla pura il più possibile. Poi ogni “Mesciu” fabbricava le forme maggiormente richieste dall’uso e dal mercato e per la bellezza e finezza dipendeva dalla mano del Maestro. C’era chi utilizzava una certa quantità di argilla per una sola forma, chi invece, con quella stessa quantità, sfornava diversi pezzi. Gli embrici subivano una preparazione diversa dalle altre forme e la loro cottura avveniva con forni aperti. “U nzartaru” era lo stampo utilizzato per dar forma agli embrici che venivano smerciati in tutto il Salento.
Il carro era il mezzo di trasporto principe per recarsi ai mercati che erano tanti. L’uso dei prodotti di argilla era una costumanza e la richiesta continua. Erano anche oggetti fragili, per cui nascevano dei piccoli depositi nei mercati più importanti per evitare delle perdite con continui trasporti. La rottura di una “Vozza o Padale” (contenitori per liquidi e solidi, abbisognevoli di una lunga procedura di manifattura), significava ad esempio una grande perdita. Essi, infatti, a seconda della grandezza, venivano creati in tre tempi. L’osso di seppia lisciava e liberava dei segni delle dita i manufatti, che invece erano identificativi sulle tenute che venivano attaccate alla fine della composizione della vozza. Il pettine, con tre denti, abbelliva le forme con tocchi che molto spesso ne riconoscevano l’autore.
Il sole calava e “Mesciu Dunatu” continuava a danzare col suo piede e a dar movimento al tornio.
Bibliografia:
M. Cavalera, R. Martella, “Cave di estrazione dell’argilla nel territorio di Lucugnano (Tricase)”, in Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano, 12, pp. 59-78, Galatina, 2010, Congedo Editore.