SUI LUOGHI DELLA MEMORIA, DA MACURANO A SAN DANA. Diario di bordo di un cammino nelle campagne del Capo di Leuca
Marco Cavalera
Una tiepida domenica di fine ottobre, cielo terso dopo una nottata dominata dalla nebbia e, soprattutto, un’ottima compagnia sono il giusto mix per una passeggiata che permetterà, da li a poco, di scoprire il fascino millenario di insediamenti scavati nella roccia e paesaggi incontaminati tra uliveti secolari e splendide opere d’architettura rurale, come le pajare e le liame.
Zaini alle spalle, galvanizzati dall’ora in più recuperata la notte precedente, si parte alla volta dell’insediamento rupestre di Macurano, luogo della memoria che profuma di antico, simbolo della cultura dell’olio per la presenza di almeno cinque frantoi semi-ipogei.
Il villaggio rupestre di Macurano fu sfruttato a partire dall’età bizantina da una piccola comunità dedita all’agricoltura, attività garantita dalla fertilità della terra ricca di acque di scolo provenienti dalla collina di Montesardo e raccolte in cisterne tramite un sistema di canalizzazioni in parte ancora visibile.
Nel corso del ‘500, nella stessa area, vennero edificate tre masserie fortificate: Macurano, Santa Lucia e quella a ridosso del sito, di proprietà Bleve. La loro costruzione attesta che l’insediamento rupestre fu trasformato in una grande azienda agricola.
La comitiva, dopo aver accuratamente esplorato il trappeto “Grande” di Macurano, scoperto numerose incisioni votive e perlustrato gli ambienti di lavoro e di riposo dei frantoiani, prosegue il suo percorso per un centinaio di metri verso sud fino a raggiungere un giardino di pietra, dove alcune tombe medievali scavate nel banco di roccia fanno da contorno ad un tratto di antichissima strada, secondo alcuni storici da identificare con la Via Sallentina”, ossia la strada che da Vereto(Patù) risaliva il Capo di Leuca verso Castro e Otranto.
Un sentiero, anch’esso scavato nella pietra, conduce ad una stradina campestre parallela alla ferrovia. Lasciato alle spalle Macurano e superata la S.P. 210 (Montesardo – Novaglie), si procede per circa un chilometro e mezzo in direzione sud, camminando su una stradina sterrata che costeggia a valle la Serra di San Dana, fino all’intersezione con la S.P. 189 (via Corsano). Dopo circa mezzora di cammino a passo lento, il gruppo si ferma su un ponticello in cemento armato che permette di superare i binari della ferrovia. Tutto intorno centinaia di ulivi secolari fanno da sfondo ad un paesaggio di notevole impatto visivo.
Ad occidente si scorge la Serra di San Dana, che sfiora i 160 metri s.l.m.
La comitiva non può fare a meno di annotare diverse discariche di materiale inerte per edilizia (tra cui eternit) e un’antiestetica casa in costruzione all’interno di un boschetto di querce spinose e lecci.
Si sale sulla dorsale della collina e si prosegue scendendo nuovamente di quota lungo un sentiero che conduce ad unfrantoio ipogeo. Ragnatele, radici di fico alla ricerca di vitali risorse idriche e persino un pipistrello ci accolgono nel suo ampio ambiente interno, dove si conservano ancora resti di macine, nicchie ricavate nelle pareti, incavi per i plinti dei torchi alla calabrese, pozzetti di decantazione dell’olio e vasche per la raccolta della sentina. Nel suo desolante stato di abbandono lo si immagina come luogo intriso di lavoro, sangue e sudore, testimone di un’epoca in cui lo strepitio dell’attività umana giungeva anche dalle viscere della terra.
Poco distante, al culmine di un tratturo scavato nella roccia, un altro monumento della civiltà contadina ci racconta della forte vocazione agro-pastorale dell’area: un’aia ricavata sulla pietra levigata e delimitata da blocchi di calcare locale. Siamo in località Aia della Serra; guardando verso settentrione notiamo un’altra grotta, che si apre sul versante orografico esposto a sud di un canalone naturale, destinata anch’essa a frantoio.
Una sosta ai margini dell’aia permette al gruppo di ammirare il suggestivo paesaggio bucolico di località Aia della Serra, costellato di campagne coperte da terra rossa come il tramonto, liame e pajare, ulivi e piccoli orti coltivati con amorevole cura dai contadini. Una leggera coltre di foschia impedisce di mirare lo sguardo al di là del Canale d’Otranto, fino alla catena montuosa degli Acroceauni (Epiro), al profilo trapezoidale dell’isola di Fanò (Othonoi) e al promontorio settentrionale di Corcira (Corfù). Sulla destra (ad ovest) però si possono vedere ampie distese di seminativo (cereali); a sinistra invece il costone di roccia che degrada a valle, è colonizzato dalla Macchia mediterranea, querce e, ancora una volta, da ulivi secolari.
Appena il tempo di una lettura rigenerante di un passo del Viaggio de Leuche de Lu Mommu di Salice (don Geronimo Marciano) e si riparte verso la cripta di Sant’Apollonia, distante solo poche centinaia di metri, dopo aver attraversato un campo di zucchine.
Impreziosito da pregevoli – ma mal conservati – affreschi, l’ipogeo presenta sulla parete settentrionale una celletta nella quale vi è un sedile scavato nella roccia. Il seggio di pietra, secondo alcuni studiosi, potrebbe essere stato utilizzato da un eremita nei momenti di relax sulla base delle semplici regole imposte dal monaco Pacomio di Esna, fondatore del cenobitismo, discepolo di Palemone: dedizione al lavoro, autosufficienza e riposo da seduti.
Qualcuno della comitiva si fa immortalare sullo scranno di pietra, prima di soffermarsi sui cicli di affreschi, risalenti a diverse fasi decorative dall’età bizantina a quella angioina, fino ad arrivare al 1758, anno in cui risale la maggior parte dei dipinti, da quello che raffigura la Santa a cui è dedicato il luogo di culto ad una Crocifissione in pessimo stato di conservazione.
La cripta è la tappa più meridionale dell’escursione e dopo una lunga sosta si ritorna verso il luogo di partenza, attraverso la strada secondaria che conduce a Montesardo passando dalla chiesa extraurbana di Santa Barbara. L’edificio di culto, che a primo impatto dà l’idea di un fienile, custodisce al suo interno affreschi di pregiata fattura, collocabili in un arco cronologico che va dai primi decenni del XIV secolo alla metà del secolo successivo. La presenza di ben tre Santa Barbara dipinte sulle pareti suggerisce a una donna della comitiva la celebre filastrocca dialettale:
Santa Barbara nun durmire
ca doi nuvole visciu venire
una de acqua, una de ieutu,
una ca porta lu maletiempu.
I cellulari iniziano ininterrottamente a squillare e indicano che sul tabellino di marcia si è accumulato discreto ritardo.
Altri 800 metri e si giunge a lambire Montesardo da cui, attraverso la S.P. 248, si riscende frettolosamente in direzione di Macurano laddove il nostro breve ma intenso viaggio ha avuto inizio.
L’Associazione Archès ringrazia i soci Gianluca Tonti e Francesca Nuzzo per il reportage fotografico e la folta comitiva che ha partecipato all’escursione, svoltasi domenica 27 ottobre.